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giovedì 18 luglio 2013

Danilo Dolci - prima parte

Danilo Dolci è un sociologo nato domenica 28 giugno 1924 a Sesana (ora territorio sloveno ma prima della seconda guerra mondiale appartenente al territorio italiano) da Maria Carmen (Meli in sloveno) Kontelj (slovena, molto religiosa) e da Enrico (siciliano ma originario di Rovato, agnostico, cioè, diciamo un astenuto riguardo alla concezione della o delle divinità).
Il nonno materno di Danilo, Giuseppe, era cancelliere al Tribunale di Brescia. Un uomo buono e contrario ad ogni forma di sopruso e violenza tanto che mentre passeggiava per le vie di Brescia, incontrò dei militari e, non essendosi tolto il cappello per riverirli, s'è preso una sberla che gli ha fatto volar via il cappello. Questo gesto brutale starà alla base del trasferimento in Jugoslavia.

Danilo è il primogenito, la sorella Miriam ha otto anni in meno.
Per via del lavoro del padre ferroviere, la famiglia sarà soggetta a continui cambi di residenza.
A 4 anni si trova a Vergiate (Varese, Lombardia). Una mattina è a casa da solo e sente bussare alla porta. Apre e trova un ragazzino che chiede l'elemosina. Ricordando gli insegnamenti dei genitori, cerca dei soldi da dare a quel bambino ma non trovandone decide di prendere il berretto (compratogli qualche giorno prima) e darlo al ragazzino.
L'anno successivo è a Gallarate. È qui che ottiene, dalla famiglia, il soprannome “Lasciami finire il capitolo”, tanta era la sua voglia di conoscenza. Letture preferite: Goethe, Platone, Russel, Seneca, Shakespeare, Tolstoj e Voltaire.
Dai dieci ai quattordici anni va a scuola a Varese con un treno da Gallarate.

Nei primi anni della guerra risiederà a Tortona (Alessandria, Piemonte) e frequenterà l'Istituto tecnico per geometri a Pavia. In estate lavora come manovale.
Al penultimo anno di geometra, si presenta al Liceo artistico di Brera.

Nell'estate 1940 la famiglia va a Trappeto (Palermo, Sicilia) a trovare il padre (là per lavoro) e vi trascorrerà le vacanze. Danilo, mentre legge seduto su uno scoglio, farà amicizia con contadini e pescatori. La famiglia vi ritornerà l'estate successiva, mentre Danilo si starà preparando agli esami. Ha sognato durante tutto l'inverno lombardo quel luogo. 

A 17 anni consegue la maturità artistica (riguardo all'arte, è notoria la sua predilezione per la musica classica, soprattutto Bach e Mozart) nonché il diploma di geometra, svegliandosi alle quattro di mattina per studiare.
Il padre rimarrà a Trappeto per lavoro fino al 7 settembre 1943 mentre Danilo e famiglia sono a Tortona.

Nel 1943 Danilo verrà visto mentre strappa i manifesti di propaganda della dittatura fascista. 

Viene sottoposto a controllo perché ha mostrato simpatie verso l'obiezione di coscienza, ha manifestato dissenso alla violenza, alla guerra ed ha rifiutato la divisa della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini.
Sale allora su un treno verso quel Sud che gli Alleati cominciavano a liberare. A Genova viene scoperto ed arrestato dai nazifascisti.
Durante l'interrogatorio approfitta della momentanea uscita dell'ufficiale nazista e fugge.
Troverà riparo da dei pastori a Campotosto (Aquila, Abruzzo).

Il giorno del suo ventesimo compleanno va a Roma a trovare degli amici originari di Tortona.
Per vivere dà lezioni private ed intanto si iscrive alla facoltà di Architettura a Roma.

A guerra finita la famiglia di Danilo si trasferisce a Pozzolo Formigaro (Alessandria).
Danilo va invece nella casa paterna, ritrova molte poesie scritte in precedenza e le getta via. La madre riuscirà a recuperare qualche verso, alcuni anche dedicati a lei.
Conoscerà l'architetto Bruno Zevi e sempre nel milanese comincerà ad insegnare “Scienza delle costruzioni” in una scuola serale a Sesto San Giovanni. Nel mentre continuerà a studiare Architettura al Politecnico di Milano.

Conoscerà poi David Maria Turoldo dal quale riceverà questo insegnamento: “Godi del nulla che hai, del poco che basta giorno per giorno, pure quel poco, se necessario, dividi. Vai di paese in paese e saluta, saluta tutti, il nero, l'olivastro, perfino il bianco”

Turoldo, inoltre, gli parla di una comunità chiamata “Città dei ragazzi di Nomadelfia” fondata da don Zeno Saltini e sorta in un ex campo di concentramento di Carpi (Modena, Emilia Romagna) dove si accolgono bambini orfani o abbandonati, dove ognuno lavora per la comunità e dove non esiste la proprietà privata.
Danilo rimane affascinato e dopo varie visite e tentennamenti si prende una settimana di tempo per riflettere vivendo da eremita in montagna.

Nel 1950 abbandona la tesi prossima ad essere discussa, abbandona la fidanzata Alice dopo avergli detto di non voler seguirlo, abbandona anche gli amici e la famiglia per unirsi alla comunità cattolica di Nomadelfia. Il nome dovrebbe essere una parola greca e significare “legge di fraternità”

Danilo vive da povero e da ultimo svolge i lavori più umili per esempio pulendo le stalle.
L'anno successivo la comunità si ingrandisce, servono nuovi spazi e così Danilo ha il compito di costruire case.
“In alto, al bosco dei marini olivi, profumata dai fiori delle vigne noi costruiremo la città di Dio”

L'anno successivo però, Danilo comincia a pensare che questa comunità sia troppo chiusa per lui, sente che al di fuori ci sia tanta gente che necessiti di aiuto e decide quindi di abbandonare Nomadelfia.
Don Zeno scrive due lettere a Danilo per cercare di convincerlo a restare. Non riuscendoci gli raccomanderà allora di stare attento “a non fare due”, cioè a non scegliere per la seconda volta una strada importante per cambiarla poco dopo.

Danilo, dopo essere tornato a casa ed essersi consigliato col padre, a fine gennaio 1952 arriva a Trappeto, con 30 lire in tasca.
Il ricordo del padre è vivo nei trappetesi e Danilo viene accolto a braccia aperte.
Inizialmente viene ospitato dalla famiglia Scardino, poi vivrà in una tenda.

A Trappeto non c'era una strada asfaltata, un medico, una farmacia, delle fognature. Non c'era soprattutto il lavoro.
Con l'aiuto di amici conosciuti a Nomadelfia (comunità che nel giugno 1952 verrà momentaneamente chiusa dalle autorità), Danilo comprerà circa due ettari di terreno in un promontorio appena fuori dal paese e lo chiamerà “Borgo di DIO”

Cominciano a costruire la strada che porta al Borgo e una casetta in funzione di abitazione ma anche di ricovero per i bimbi. Le persone accettavano di lavorare ed esser pagate quando arrivavano i soldi.
Sente il bisogno di riflettere a fondo sulla propria vita. Vede i pescatori in miseria, i bambini sporchi nel fango, i fuorilegge che entrano ed escono dal carcere e si dice che “Se io sono più cattivo, anche gli altri sono più cattivi; se io sono più buono, anche gli altri sono più buoni”

Il chiaro intento è quello di combattere, in maniera nonviolenta, la mafia che tiene la popolazione sottosviluppata. Avanzerà, con coraggio e coerenza, lotte per i diritti e per il lavoro. 

Numerose le proteste avviate da Danilo.
Su 50 bimbi nati in quell'anno, 10 erano morti nei primi mesi di vita.
Il 6 aprile era morto per denutrizione il bimbo Benedetto Barretta. Aveva un mese esatto di vita.
Il 14 ottobre, sdraiato sul letto di morte del bimbo, comincia uno sciopero della fame per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sulle difficili condizioni di vita di quella popolazione. Uno dei primi a scrivergli fu Aldo Capitini, con cui nacque un bel rapporto (non a caso entrambi soprannominati “Gandhi italiano” per il loro impegno sociale e politico).
Dopo 8 giorni, il digiuno viene interrotto quando, dopo il risalto dato dalla stampa, le autorità s'impegnano nella costruzione di un impianto fognario, dando occupazione ai trappetesi.
È su questo periodo che scriverà il libro “Fare presto (e bene) perché si muore”

Amici inviano denaro e Danilo vi costruirà due casette adibite ad asilo ed università.
“Non era, il suo, il tono del puro missionario o del filantropo, ma quello di un uomo che ha fiducia, che ha fiducia negli altri e fa sorgere la fiducia intorno a sé, e con quest'arma sola sente di poter far nascere la vita dove parrebbe impossibile, a poco a poco, per forza spontanea” - da “Le parole sono pietre” di Carlo Levi.

L'anno successivo sposa Vincenzina, vedova di una vittima di banditismo con cinque figli, da cui avrà altri cinque figli: Libera, Cielo, Amico, Chiara e Daniela.

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