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Accanto a ciò che si racconta ha un'importanza vitale come lo si racconta, quindi esigo “l'indipendenza per poter approvare ciò che c'è di buono e criticare ciò che c'è di male”


lunedì 4 giugno 2012

Adriano Paroli


Adriano Paroli è nato a Brescia nel 1962.
Si è laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano, partecipando alla fondazione della Cooperativa Universitaria Studio e Lavoro. Di professione è avvocato.
Nel 1991 venne eletto consigliere comunale di Brescia per la Democrazia Cristiana e ricoprì fino al 1994 il ruolo di assessore all’urbanistica.


Aderisce ai Cristiani Democratici Uniti e nel 1995 viene eletto anche nel consiglio provinciale, diventando capogruppo di Forza Italia (a cui passerà) - Polo popolare.

Nel 1996 si candida anche alla Camera dei deputati ed è eletto per il Polo per le Libertà.

Nel 1998 è anche rieletto consigliere comunale e dal luglio è componente della Commissione parlamentare (permanente) Ambiente.

Nel 2001 viene anche rieletto deputato e farà parte (fino all’aprile 2006) della Commissione Affari Esteri e Comunitari e della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici.

Nel 2003 è anche rieletto consigliere comunale. Presiede la Commissione Bilancio.

Nel 2006 è anche rieletto deputato diventando vicepresidente del gruppo parlamentare Forza Italia ed è componente della Delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare della NATO.

Nell’aprile 2008 si ricandida alla Camera per il Popolo della Libertà e contemporaneamente si candida anche per diventare sindaco di Brescia. Viene eletto da entrambe le parti e mantiene entrambe le cariche nonostante le norme su incompatibilità ed ineleggibilità dicano che non si possa essere contemporaneamente primo cittadino di un comune con più di 20mila abitanti (come Brescia) e deputato ma non prevedono il caso di elezioni a più cariche in contemporanea (forse perché il buon senso imporrebbe una scelta a priori su che cosa si intende fare, non un tentativo contemporaneo a più cose ed una obbligata scelta successiva).

Nonostante i vari “anche” scritti fino ad ora in questa pagina per farvi capire quanti incarichi pubblici contemporanei ha detenuto, quest’uomo o è Superman o difficilmente riuscirà a ricoprire efficacemente i due ruoli.


Si è dovuto aspettare una sentenza della Corte Costituzionale affinché pensasse davvero a cosa avrebbe voluto fare nel quinquennio 2008-2013 e così, a gennaio di quest’anno, dopo quasi 4 anni di incompatibilità, s’è dimesso da parlamentare.

venerdì 1 giugno 2012

Trentasei anni fa ma sembra oggi

Mentre in questi giorni infiammano polemiche riguardo l'impiego di quasi 3 milioni di euro per la parata nel giorno di festa alla Repubblica (critiche condivisibili, un po' tardive per via di impegni già presi ma valide per l'iniziativa del prossimo anno) il giorno 29 del mese di maggio inviai al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano frammenti della lettera che nel 1976 (anno del terremoto in Friuli) Lelio Basso mandò all'allora Ministro della Difesa Arnaldo Forlani


"Sono personalmente grato al ministro Forlani per avere deciso la sospensione della parata militare del 2 giugno, e naturalmente mi auguro che la sospensione diventi una soppressione.
Non avevo mai capito, infatti, perché si dovesse celebrare la festa nazionale del 2 giugno con una parata militare...
Il 2 giugno fu una vittoria politica, la vittoria della coscienza civile e democratica del popolo sulle forze monarchiche e sui loro alleati: il clericalismo, il fascismo, la classe privilegiata. Perché avrebbe dovuto il popolo riconoscersi in quella sfilata di uomini armati e di mezzi militari che non avevano nulla di popolare e costituivano anzi un corpo separato, in netta contrapposizione con lo spirito della democrazia?
C’era in quella parata una sopravvivenza del passato, il segno di una classe dirigente che aveva accettato a malincuore il responso popolare del 2 giugno e cercava di nasconderne il significato di rottura con il passato, cercava anzi di ristabilire a tutti i costi la continuità con questo passato...
La Costituzione repubblicana, figlia precisamente del 2 giugno, aveva scritto nell’articolo primo che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Una repubblica in primo luogo. E invece quel tentativo di rinverdire glorie militari che sarebbe difficile trovare nel passato, quel risuonare di armi sulle strade di Roma che avevano appena cessato di essere imperiali, quell’omaggio reso dalle autorità civili della repubblica alle forze armate, ci ripiombava in pieno nel clima della monarchia, quando il re era il comandante supremo delle forze armate, “primo maresciallo dell’impero”. Le monarchie, e anche quella italiana, eran nate da un cenno feudale e la loro storia era sempre stata commista alla storia degli eserciti: non a caso i re d’Italia si eran sempre riservati il diritto di scegliere personalmente i ministri militari, anziché lasciarli scegliere, come gli altri, dal presidente del consiglio. Ma che aveva da fare tutto questo con una repubblica che, all’art. 11 della sua costituzione, dichiarava di ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali? Tradizionalmente le forze armate avevano avuto due compiti: uno di conquista verso l’esterno e uno di repressione all’interno, e ambedue sembravano incompatibili con la nuova costituzione repubblicana.


Repubblica democratica in secondo luogo. In una democrazia sono le forze armate che devono prestare ossequio alle autorità civili, e, prima ancora, devono, come dice l’art. 52 della costituzione, uniformarsi allo spirito democratico della costituzione. Ma in questa direzione non si è fatto nulla e le forze armate hanno mantenuto lo spirito caratteristico del passato, il carattere autoritario e antidemocratico dei corpi separati, sono rimaste nettamente al di fuori della costituzione. I nostri governanti hanno favorito questa situazione spingendo ai vertici della carriera elementi fascisti, come il gen. De Lorenzo, ex-comandante dei carabinieri, ex-capo dei servizi segreti ed ex-capo di stato maggiore, e, infine, deputato fascista; come l’ammiraglio Birindelli, già assurto a un comando Nato e poi diventato anche lui deputato fascista; come il generale Miceli, ex-capo dei servizi segreti e ora candidato fascista alla Camera. Tutti, evidentemente, traditori del giuramento di fedeltà alla costituzione che bandisce il fascismo, eppure erano costoro, come supreme gerarchie delle forze armate, che avrebbero dovuto incarnare la repubblica agli occhi del popolo, sfilando alla testa delle loro truppe, nel giorno che avrebbe dovuto celebrare la vittoria della repubblica sulla monarchia e sul fascismo. E già che ho nominato De Lorenzo e Miceli, entrambi incriminati per reati gravi, e uno anche finito in prigione, che dire della ormai lunga lista di generali che sono stati o sono ospiti delle nostre carceri per reati infamanti? Quale prestigio può avere un esercito che ha questi comandanti? E quale lustro ne deriva a una nazione che li sceglie a proprio simbolo?
Infine, non dimentichiamolo, questa repubblica democratica è fondata sul lavoro. Va bene che, nella realtà delle cose, anche quest’articolo della costituzione non ha trovato una vera applicazione. Ma forse proprio per questo non sarebbe più opportuno che lo si esaltasse almeno simbolicamente, che a celebrare la vittoria civile del 2 giugno si chiamassero le forze disarmate del lavoro che sono per definizione forze di pace, forze di progresso, le forze su cui dovrà inevitabilmente fondarsi la ricostruzione di una società e di uno stato che la classe di governo, anche con la complicità di molti comandanti delle forze armate, ha gettato nel precipizio?
Vorrei che questo mio invito fosse raccolto da tutte le forze politiche democratiche, proprio come un segno distintivo dell’attaccamento alla democrazia. E vorrei terminare ancora una volta, anche se non sono Catone, con un deinde censeo: censeo che il reato di vilipendio delle forze armate (come tutti i reati di vilipendio) è inammissibile in una repubblica democratica"